Il problema dei detriti spaziali è stato di vitale importanza sin dalle prime fasi dell’esplorazione dello spazio. Date le velocità – parecchi chilometri al secondo – in gioco, un impatto con una semplice vite potrebbe rivelarsi fatale per una navicella o per un astronauta al lavoro nello spazio.
La maggior parte dei detriti fortunatamente ritorna sulla terra: a seconda dell’altezza e delle dimensioni questi possono bruciare completamente per attrito con l’atmosfera o tornare in pezzi sulla terra. Di solito i primi stadi dei razzi cadono nel mare o sulla terra a seconda della base da cui vengono lanciati. I razzi dello Shuttle ammarano nell’oceano Atlantico (ed i razzi laterali a combustibile solito, dopo un ammaraggio morbido grazie ai paracadute, vengono recuperati per essere riutilizzati), mentre i vettori lanciati dalla base russa di Plesetsk, cadono nel mare di Barents. I lanci della Soyuz che portano l’equipaggio e le provviste sulla Stazione Spaziale Internazionale, vengono effettuati dalla base di Baikonur, sita nel territorio del Kazakistan: in questo caso i razzi vengono lasciati cadere nel deserto a nord-est, dopo essersi assicurati che non vi siano persone che possano essere colpite. Talvolta però frammenti dei razzi possono anche cadere in prossimità di aree abitate, anche se sino ad ora non si sono registrati danni a persone (figura delta2ndstage_intexas).
Un detrito che si trovi in orbita bassa, sino a 200 km di altezza rientra sulla terra in pochi giorni. Questo tempo sale fino a qualche anno per oggetti fino a 600 km, ed a parecchi decenni se l’orbita è più alta. A causare la caduta dei detriti è il debolissimo strato di atmosfera, sufficiente a rallentare in maniera impercettibile ma continua tutti gli oggetti che la attraversano. La velocità di rientro sarà tanto maggiore quanto maggiore è il rapporto tra l’area e la massa dei vari oggetti: in altre parole un razzo molto sottile e pesante impiegherà molto più tempo a cadere di un satellite frenato da grossi pannelli solari.
Anche la Stazione Spaziale Internazionale, che si trova ad un’orbita variabile tra i 330 ed i 400 chilometri (foto issalt.gif) e necessita dunque di periodiche spinte da parte della navetta cargo Progress e dello Space Shuttle. Senza questo aiuto da terra essa ritornerebbe al suolo analogamente a quanto avvenuto nel 2001 con la stazione russa Mir. Infatti, dopo una vita di ben 15 anni, si decise di abbandonarla in favore della nuova Stazione Internazionale. La sua massa e complessità strutturale (vari moduli attaccati tra loro) ha richiesto uno studio particolare per evitare che cadesse in aree abitate. Fu dunque deciso di effettuare una serie di frenate controllate che ne facessero decadere l’orbita in maniera che i rottami dei vari moduli ammarassero nell’Oceano Pacifico (foto mir_reentry.jpg).
Il rischio maggiore per il volo spaziale viene però dalla enorme moltitudine dei piccoli detriti in orbita intorno alla terra: vi sono 11000 oggetti più grandi di 10 cm, centomila di dimensioni comprese tra 1 e 10 cm e milioni più piccoli di un centimetro. La maggior parte di essi è posta in orbita bassa (300-600 km) ed in orbita geostazionaria (36.000 km), ove si trovano i satelliti televisivi e per telecomunicazione (fig leo640, geo640). Vi sono poi ben 70.000 oggetti di circa 2 cm in una fascia compresa tra 650 e 1000 km: questi sono probabilmente dovuti a gocce congelate (ma non per questo meno pericolose) di liquido di raffreddamento dei reattori nucleari posti su vecchi satelliti russi RORSAT. Dato il rischio legato all’impatto di oggetti nello spazio con satelliti o la stazione spaziale, sia gli Stati Uniti che la Russia controllano (foto goldstone.jpg) continuamente oggetti grandi solo alcuni millimetri. Tuttavia è possibile tracciare e prevedere la traiettoria solo di quelli più grandi di 10 cm: in caso vi sia una probabilità di impatto elevata la prassi è di modificare l’orbita della stazione per portarla in una zona di sicurezza. Anche l’assetto dello Shuttle in volo è volto a minimizzare il danno da un potenziale impatto di detriti: la navetta vola infatti con la chiglia verso l’alto e con la poppa “in avanti”, in maniera da esporre maggiormente le parti più schermate e pesanti. In ogni caso impatti con piccoli frammenti si verificano continuamente: sono loro una delle cause del degrado dei pannelli solari , che vengono lentamente ma inesorabilmente danneggiati da corpuscoli poco più grandi di un granello di polvere. In passato si è anche verificato un impatto con uno dei finestrini dello Shuttle (foto sts7crack_small.jpg), per fortuna senza gravi conseguenze visto che l’oggetto era abbastanza piccolo da essere fermato dal robusto vetro dell’oblò.
Drammaticamente più devastante è stato l’impatto con la una parte del rivestimento del serbatoio esterno dello Space Shuttle Columbia nella missione STS-107 del 2003. Le vibrazioni del lancio fecero infatti staccare un segmento di gommapiuma (foto debrissts107.gif) facendogli urtare a più di 500 km/h la parte frontale dell’ala sinistra. Le ali sono costituite di una fibra rinforzata di carbonio, particolarmente leggera ed in grado di sopportare le enormi temperature del rientro nell’atmosfera. Queste strutture sono tuttavia molto fragili in quanto non disegnate per sopportare grossi impatti meccanici come quello avvenuto al lancio. Anche se i tecnici osservarono l’impatto sull’ala ed il sistema di radar che traccia lo Shuttle nel corso della sua missione osservò il distacco di un frammento – che rientrò dopo due giorni nell’atmosfera - dalla navetta, la direzione del programma decise di non investigare la presenza di eventuali danni all’ala con telescopi da terra. Al momento del rientro il gas ionizzato provocato dall’attrito dello Shuttle con l’atmosfera fece fondere il supporto in alluminio causando la rottura dell’ala e la successiva distruzione della navetta, causando la perdita di tutto l’equipaggio. Il Columbia si spezzò prima in tre grosse sezioni, la cabina frontale, la sezione centrale e quella di coda con i motori e poi si frammentò in una miriade di frammenti che si sparsero in una vasta area, seguendo la rotta di rientro. I detriti furono poi recuperati in gran parte ed analizzati per risalire alle cause dell’incidente. Anche i risultati degli esperimenti effettuati nelle 2 settimane di missione non andarono perduti e fecero sì che il sacrificio dell’equipaggio non fosse in vano.
Gli esperti concordano nell’affermare che il problema dei detriti nello spazio è attualmente sotto controllo. Tuttavia il futuro non è così roseo: all’aumento del numero di frammenti c’è il rischio che si inneschi la sindrome di Kessler. Questo scienziato ha infatti ipotizzato uno scenario in cui in una singola collisione si produce un gran numero di detriti che a loro volta colpiscono altri oggetti generando una reazione a catena che riempie lo spazio di rottami, rendendo future missioni spaziali molto rischiose o addirittura impossibili.
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L’altezza dell’orbita della Stazione Spaziale Internazionale in funzione del tempo. Nell’immagine (tratta da http://www.spaceref.com/news/viewsr.html?pid=17293 ) è possibile vedere come l’attrito con l’atmosfera ne riduce gradualmente l’altezza, sino a richiedere una spinta (reboost) per riportarla. |

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Un serbatoio del secondo stadio di un Delta caduto nei pressi della cittadina di Georgetown in Texas. |
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I moduli della stazione spaziale Mir bruciano al rientro nell’atmosfera in prossimità delle isole Fiji. |
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L’antenna di 70 m Goldstone, sita vicino Barstow (California). Se usata come radar, l’antenna è in grado di rivelare la presenza di oggetti di 2 mm sino ad un’altezza di 1000 km. |


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Uno schema della posizione dei detriti più grandi che minacciano il volo spaziale: è possibile vedere che essi si trovano per lo più in orbite basse o geostazionarie (l’anello della figura di destra). I detriti ad alta latitudine sono per lo più dovuti a satelliti russi con orbite molto eccentriche. |

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La microfrattura (circa tre millimetri di raggio) dovuta ad un frammento che ha colpito il finestrino dello Space Shuttle nella missione STS7. |

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L’impatto del frammento di gommapiuma sull’ala sinistra del Columbia al momento del lancio dello Shuttle. L’urto aprirà un buco nella parte frontale dell’ala causando la distruzione dello Shuttle al momento del suo rientro nell’atmosfera. |
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